Percorrere la sottile linea di natura che separa i laghi e la zona industriale, a Mantova, permette di scoprire la complessità del rapporto tra umani , acqua e ambiente naturale. Esso è molto più complesso di quanto possa apparire ad un rapido sguardo, e coinvolge intimamente storia, società, economia e produzione del cibo.
L’agricoltura è una delle attività identitarie dell’agro mantovano, e la maggior parte delle acque del Mincio viene utilizzata, oggi, a fini irrigui, per la produzione agricola.
L’acqua viene prelevata dal fiume e dal lago superiore e portata, attraverso un sistema capillare di canali in tutto il territorio; ancora una volta la gestione dell’acqua assume un’importanza fondamentale per l’economia e il benessere delle genti della pianura.
Il territorio di Mantova, come la gran parte della pianura padana, è in larga parte dedito all’agricoltura: ci circonda un contesto assolutamente agricolo. Più del 50% della superficie del bacino del Mincio è coltivata, e le colture sono così redditizie perché sono sostenute da una ricca fertilizzazione e dall’abbondante disponibilità di acqua. L’agricoltura, che è un’attività fondamentale, votata al nostro sostentamento primario, è un ulteriore, fondamentale elemento del complesso rapporto tra essere umano e natura.
La produzione di mais è quintuplicata negli ultimi decenni grazie alla genetica, alla fertilizzazione e al supporto dell’irrigazione.
Un campo di mais produce più di una foresta tropicale.
Non esiste un ecosistema naturale che sia capace di produrre, in 5 mesi, piante alte più di 3 metri, e così fitte. Abbiamo raggiunto, probabilmente, la massima produzione possibile in un ecosistema limitato.
Da un punto di vista della produzione un campo di mais è sicuramente più produttivo dell’ecosistema lacustre mantovano.
Ma allora perché risulta fondamentale conservare e destinare ingenti risorse economiche e intellettuali per mantenere un ambiente umido, come i laghi di Mantova e le sue valli, un luogo che non produce cibo (almeno intenzionalmente) per il nostro sostentamento?
Per capirlo dobbiamo chiederci cosa differenzia un agroecosistema, un campo coltivato, da un ecosistema naturale o solo parzialmente gestito.
Un campo di mais rimane una monocultura, probabilmente sono tutte piante identiche da un punto di vista genetico.
Un campo di mais non potrebbe mai avere quella produttività se non ci fossero gli agricoltori che lavorano il campo, che arano, che irrigano e che fertilizzano il suolo.
Un ambiente naturale, come quello dei laghi, ospita una biodiversità vegetale e animale molteplice e difficilmente quantificabile. Un insieme di specie capaci di creare relazioni complesse e proteggere il loro habitat da eventuali perturbazioni esterne.
Un campo di mais è infinitamente più vulnerabile dell’ambiente in cui ora ci troviamo, proprio in funzione della sua scarsissima biodiversità.
Per garantire tassi di produttività elevati all’unità ambientale “campo di mais”, condizione per noi ottimale, viene imposta una sovrasemplificazione del suo essere un ecosistema.
Se sul territorio avessimo solo campi di mais, il nostro sistema ambientale entrerebbe in crisi in pochissimo tempo.
È dimostrato che i sistemi naturali diversificati sono più resilienti e resistenti, e quindi maggiormente in grado di contrastare avversità di qualsiasi natura.
Per garantire una sovrapproduzione utile al nostro stile di vita, abbiamo forgiato ecosistemi iper-semplificati, estremamente vulnerabili, perseguendo una progressiva riduzione della biodiversità. Ciò rende fragile la nostra economia, riduce la sicurezza alimentare e ci rende intrinsecamente sempre più vulnerabili al cambiamento climatico.