Attraversando la robusta Porta Giulia, si può percepire ancora oggi il passaggio tra l’interno e l’esterno della città. Naturalmente non si esce dal ducato, ma si passa da una dimensione più urbana, seppur oggi periferica, ad una più campestre: si entra nel Parco del Mincio.
Porta Giulia, nonostante qualche perplessità sull’attribuzione (compresa quella dello storico dell’architettura Manfredo Tafuri), viene attribuita a Giulio Romano e riecheggia le forme del rinomato Palazzo Te (un tempo immerso nella campagna a sud della città).
La sua costruzione è identificata tra il 1542 e il 1549 ad est della Cittadella di Porto.
Il linguaggio dorico rusticato che la caratterizza la rende ancor più imponente, dichiarando la funzione difensiva della Cittadella. La facciata è caratterizzata da quattro lesene a bugne che scandiscono la composizione che sorregge la trabeazione dorica con frontone decorato. Un portale centrale ad arco e due aperture rettangolari minori laterali permettono l’accesso ad un’insolita ampia aula voltata a botte che consentiva l’accesso o l’uscita dalla città. Questa grande sala, dalla curiosa sezione in cui è perfettamente inscrivibile un cerchio, è paragonabile per dimensioni alla sala dei Cavalli a Palazzo Te e, grazie alla sua ampiezza, permetteva alle armi per la battaglia di girarsi, e si pensa inoltre ad un ruolo rappresentativo vista la raffinatezza della decorazione.
C’è una massima nota a molte persone del luogo che fa più o meno così: “Mantova è stata distrutta più in tempo di pace che in guerra” e da sola può indicare un’interpretazione dello sviluppo che ha caratterizzato la città.
Questi vent’anni nei Duemila e il secolo precedente hanno proceduto in modi sicuramente diversi ma tutti accomunati da una facilità di disfarsi delle particolarità in nome di un rinnovamento e di una industrializzazione che, anche dove necessaria, oggi mostra tutti i suoi limiti oggettivi e l’impoverimento della memoria di un territorio.
Lo si può comprendere annoverando interventi massicci come lo smantellamento delle mura e delle porte di accesso alla città ad eccezione di Porta Giulia qui a Cittadella. Così la copertura del Rio e la successiva cancellazione del quartiere della Bellalancia; lo sventramento del Ghetto e delle sinagoghe.
Un “piccone risanatore” senza fine che da un lato ha distrutto e dall’altro ha posato nuove pietre. Case moderne, palazzi: è stato brevissimo il passo dall’assecondare il fabbisogno abitativo di una città che cresce (o che va ricostruita dopo la guerra) ad una espansione edilizia sconsiderata. Così si è inoltre persa la peculiarità della piccola città allineandosi, specie nell’ultimo trentennio, ad altre realtà dove domina la combinazione tra case sfitte, cantieri abbandonati e una forte dispersione urbana.
La nuova era portata dal dopoguerra del boom economico ed industriale ha fatto sognare a tutte e tutti una crescita infinita: con l’apertura delle fabbriche, specialmente nell’area Est caratterizzata dal polo chimico-industriale, la città ha continuato ad espandersi con interi nuovi quartieri in nome di una ricchezza diffusa capace di inebriare tutto il territorio. Oggi che quel sogno è ormai tramontato possiamo vedere il lascito e immaginare futuri alternativi e più sostenibili. Di quel tessuto industriale e produttivo rimane poco. Chiuse raffinerie, impianti, distretti produttivi e fabbriche alle porte della città che rappresentano un triplice problema: l’abbandono di siti in degrado, la desertificazione lavorativa che porta a gravi problemi di disoccupazione e una questione ambientale che investe le acque di superficie e le falde sotterranee.
Un territorio malato di inquinamento al quale non possiamo più voltare le spalle.
Il futuro è una difficile partita tra chi pensa di ripetere schemi già visti e chi, specialmente tra le nuove generazioni, inizia ad immaginare una città che ricostruisca una armonia tra la natura e l’insediamento umano, in modo da preservare la sostenibilità di tutto il territorio.